La vita e il culto di San Vicinio

A Vicinio la terra sarsinate e la media valle del Savio, ancora popolate di culti e divinità pagani, sono tributarie della prima evangelizzazione: i primi dati sicuri, a cui ci si possa appoggiare non per notizie riconducibili al santo ma per elevate testimonianze sull’antichità della locale comunità cristiana, conducono agli anni 455 e 507-511. Alla prima data risale una iscrizione cristiana conservata nel Museo Archeologico sarsinate; alla seconda va riferita una lettera – registrata nelle Variae di Cassiodoro (480/485-580ca.) – che il re Teoderico (454 ca.-526) invia a Gudila, vescovo ariano di Sarsina.
 
Dobbiamo partire da un dato che può meravigliare ma che corrisponde a verità: della vita di san Vicinio – primo vescovo di Sarsina – e delle sue vicende storiche sappiamo pochissimo, quasi nulla. Tra gli specialisti autorevoli annoveriamo gli agiologi faentini Francesco Lanzoni e Giovanni Lucchesi. Il primo asseriva che «Vicinio, forse non senza ragione, suole assegnarsi al secolo IV», mentre il secondo ribadiva che «è comunque verosimile l’episcopato di san Vicinio nel secolo IV, o anche agli inizi del V».

La Vita sancti Vicinii Saxenatis episcopi è il solo documento che ci parla del santo, un testo agiografico composto in età medievale con finalità edificatorie, devozionali e cultuali; si tratta dunque di uno scritto commissionato (molto probabilmente dall’autorità vescovile e/o capitolare) e chi l’ha scritto (un anonimo di area romagnola e probabilmente d’àmbito riminese) si prefiggeva l’illustrazione di un modello di santità episcopale, la glorificazione del protagonista e la propaganda del santuario.

La Vita è tramandata da cinque manoscritti: il Passionario della Biblioteca Gambalunga di Rimini della seconda metà del secolo XII; il codice 1622 della Biblioteca Universitaria di Padova, del secolo XV; il codice Vaticano Latino 5834, scritto verso la metà del secolo XVI e compilato dall’erudito ravennate Gian Pietro Ferretti (1482-1557); i manoscritti H.8.1 e H.9 della Biblioteca Vallicelliana di Roma, fine XVI-inizio XVII secolo.

Il testo, volgarizzato dal sacerdote sarsinate Filippo Antonini, 1560 -1621 (Vita et miracoli del glorioso confessore s. Vicinio vescovo, et protettore di Sarsina. Nouamente posta in luce d’ordine di monsignor Nicolò Brautio vescouo di Sarsina. Ad instanza del Capitolo della medesima Città, Sarsina 1609), viene édito per la prima volta dai Bollandisti. La Vita sancti Vicinii fu composta a cavallo dei secoli XI-XII, e comunque non oltre la prima metà del XII, a motivo della datazione del codice riminese che per primo la tramanda; un riferimento interno al vescovo sarsinate Uberto (documentato da prima del 20 maggio 1028 a dopo il 1053) funge da indicatore e spartiacque cronologico.

Che cosa ci racconta di Vicinio? Originario della Liguria, vale a dire dell’Italia nord-occidentale, giunse a Sarsina in tempo di persecuzioni; qui predicò il Vangelo, fu ordinato vescovo e svolse santamente il ministero episcopale, dedito alle virtù pastorali e in particolare a liberare con la preghiera e col digiuno gli infelici oppressi da influsso demoniaco.

Esercitò al sommo grado tutte le virtù evangeliche, ammaestrando clero e popolo, sovvenendo ai poveri, alle vedove, agli orfani e ai sofferenti, praticando la povertà in prima persona, pregando, vegliando e digiunando, aborrendo tutto ciò che era mondano e improntando il proprio essere e il proprio agire alla sequela di Cristo.

La sua presenza fisica determinò molteplici opere miracolose, guarendo da malattie e liberando gli ossessi dal demonio: azione, quest’ultima, nella quale Vicinio eccelleva; una sorta di specializzazione, precisa il testo, constatata e registrata anche al tempo della sua stesura. Dopo ventisette anni e tre mesi di episcopato, ricevette con la morte il premio che Dio riserva ai suoi figli diletti. Con trionfali esequie e un funerale famoso per la solennità della liturgia, fu sepolto in un sarcofago marmoreo collocato nella cripta. Dopo la sepoltura, continuarono i miracoli operati per sua intercessione presso il suo sepolcro e la vita cristiana crebbe rigogliosa.

È una “vita” che non ha notizie biografiche: nulla della famiglia d’appartenenza di Vicinio, nulla su nascita e infanzia; alcun episodio riferito alla vita terrena, al periodo precedente l’elezione episcopale e all’operato da vescovo (ma l’assenza di cronologia e di cronotopi è anche in funzione dell’atemporalità della figura del santo); si fa cenno a miracoli in vita ma non vengono raccontati; gli episodi prodigiosi appartengono tutti al post mortem.

Lo scenario d’azione dell’evangelizzatore rimane su un piano indistinto. Mancano implicazioni urbane da potersi definire sarsinati in senso stretto; la città è soltanto genericamente nominata («si diresse alla volta della città di Sarsina, comunemente chiamata Bobbio») e individuata dai connotati geografico-topografici: è collocata fra gli Appennini, ai suoi piedi scorre il fiume Savio e si trova sulla direttrice viaria Ravenna-Roma.

I secoli posti tra l’esistenza del santo e l’età di redazione della Vita Vicinii hanno inghiottito notizie e informazioni puntuali; del suo protovescovo la Chiesa sarsinate conserva soltanto lineamenti generali, derivati dalla tradizione e poggiati più sull’oralità che sui documenti scritti, dal momento che la memoria storica risulta del tutto offuscata, per non dire definitivamente perduta.

Ma qui l’agiografo si limita a prendere atto dell’esistenza di un culto secolare, attestato e ribadito dalla prassi devozionale di cui è testimone la sua fonte, cui non intende aggiungere nulla o sovrapporre alcunché di forzato; registra un dato tradizionale e lo rispetta pur nell’autocosciente consapevolezza della povertà delle indicazioni. All’autore non rimane che procedere ad un’azione programmatica pressoché obbligata: esaltare, per il tramite dei miracula post mortem registrati e registrabili intorno al sepolcro, il carisma taumaturgico del corpo di Vicinio, e dunque le proprietà esclusive della cattedrale sarsinate (plebs urbana, non si dimentichi), ormai rinomata custode di un locus sanctus, con tutte le prerogative del sanctuarium (di cui i racconti prodigiosi sanciscono le canoniche specificità); del resto la fitta rete di santuari e il ricco panorama di pellegrinaggi denunciati dal testo pongono la città sul Savio fra le mete dei questuanti bisognosi e dei cercatori del Dio-salus, sancendone una sorta di ufficialità e improntando una pubblicizzazione che sortisce l’efficacia maggiore proprio nella spettacolare e puntuale concretezza delle azioni miracolose derivate dai meriti del santo. Il catalogo dei miracoli mette in sequenza storie – che risultano veri e propri quadri di genere – assolutamente indipendenti fra loro, benché manifestino analoghi procedimenti narrativi e medesime modalità stilistiche; la loro conclusione comporta sempre un ravvedimento e una conversione della persona esaudita o guarita, e il malato diventa uno “strumento” del santo.

C’è una coscienza collettiva alla base dei racconti prodigiosi, dai quali si sprigiona un culto che giunge a determinare persino forme di aggregazione sociale (la festa del patrono confluisce in fiere e occasioni di commercio): la solennità liturgica si prolunga così su un versante laico e civile, con più elevata frequenza e densità. I miracoli, vera sopravvivenza postuma del santo, ruotano attorno ai consueti ingredienti (malato, taumaturgo e pubblico) e si sviluppano narrativamente secondo la classica struttura ternaria:
1) l’insorgere di un problema-difficoltà;
2) l’intervento del santo-aiutante;
3) la scomparsa del problema-difficoltà.

La sequenza dei nove racconti miracolosi è così articolata:

  • liberazione di un indemoniato
  • un ricco cessa di vessare un suo diacono
  • furto della «catena», suo prodigioso rinvenimento e liberazione d’indemoniato
  • una donna, che ha irriso il santo, dapprima viene punita e poi liberata
  • guarigione di un cavallo, in seguito morto per inadempienza del voto
  • liberazione di un prete ingiustamente incarcerato
  • furto di sacre offerte e conseguente punizione
  • guarigione di uno storpio
  • la reliquia del santo, dimenticata in un letto per distrazione, si manifesta prodigiosamente e così viene recuperata

TESTIMONIANZE SU SAN VICINIO
Come tutti i santi, anche Vicinio ha un culto ed una devozione documentati nel corso dei secoli. Alquanto significativa, in proposito, è l’età medievale, nella cui lunga durata si appuntano varie e variegate segnalazioni riguardo al santo vescovo di Sarsina. La più antica è costituita da una preghiera attribuita all’abate benedettino san Guglielmo da Volpiano contenuta in un codice del secolo XI: fra i santi venerati troviamo affiancati Apollinare, Vitale e Vicinio. La seconda testimonianza si trova in un altro testo agiografico (Sancti Rophilli episcopi Foropopiliensis miracula post mortem), trasmesso da un codice in gran parte degli inizi del sec. XI; nel secondo episodio narrato san Vicinio è protagonista, insieme al vescovo Rufillo di Forlimpopoli. In un notevole documento iconografico raffigurante Cristo in trono fra i santi Giovanni Battista e Vicinio e donatori, conservato nella Biblioteca Malatestiana di Cesena, con esattezza datato 1104, qualcuno vi riconoscere la figura di s. Vicinio proprio grazie alla presenza del suo tipico attributo: il protovescovo sarsinate (a destra del Cristo) è accompagnato da un’ancella che reca il collare. Un’interessantissima attestazione del culto viciniano, datata 1120, si trova nell’abbazia di Montetiffi, una fondazione benedettina del Montefeltro risalente alla metà del secolo XI: nella chiesa abbaziale si conserva la base dell’antico altare con un’epigrafe che menziona san Vicinio (primo di una lista santorale che comprende Agostino, Nicola, Leonardo, Giorgio e Giovanni Battista). Si devono poi aggiungere: un privilegio di papa Lucio III, del 1182 (cita i mercanti che giungevano a Sarsina per la festa di san Vicinio e che dovevano versare al Capitolo della cattedrale la terza parte delle tasse dovute); il sinodo diocesano del 1380, testimone del fatto che sul monte detto di San Vicinio si trova una chiesa a lui dedicata; un documento notarile del 1404 attestante la solennità di san Vicinio, con la partecipazione obbligatoria di tutti i chierici del circondario. Il culto ritorna prepotente nella seconda metà del Cinquecento, in clima post-tridentino, e agli esordi del Seicento: alimentata da evidenti impulsi di carattere locale, la devozione al santo subì agli inizi del secolo XVII una forte accelerazione ad opera soprattutto di un volumetto composto da Filippo Antonini. La redazione, fa capire l’autore, è voluta dal vescovo Nicola Brauzzi (1602-1632) e verosimilmente rientra in un progetto che intende partire da una riscoperta della tradizione locale, e dunque anche del culto dei santi; una rilettura ed un rinnovamento già iniziati dai presuli predecessori, artefici di riesumazioni, ricognizioni e traslazioni delle reliquie del santo.