La catena di San Vicinio

La devozione oltrepassa i confini della diocesi sarsinate, radicandosi nel territorio cesenate, feretrano e riminese; alcune attestazioni si trovano persino nel ferrarese e nel pontremolese. Anche le reliquie di Vicinio, secondo modalità pressoché costanti, furono oggetto di divisione e ridistribuzione fra più chiese o comunità, che evidentemente agognavano il possesso di un frammento del corpo santo e dunque della sua virtus.

Ecco una significativa testimonianza: il 27 marzo 1634 il vescovo Amico Panici (1632-1634), assistito dai sacerdoti e alla presenza del notaio, dona una reliquia del santo alla pieve di Stienta, allora in diocesi di Ferrara (oggi Adria-Rovigo).
Intanto san Vicinio e la «catena» sono entrati nell’iconografia ufficiale; il ruolo delle immagini consiste nel fissare gli attributi convenzionali, concentrando nel collare il fattore più elevato di venerazione e determinando in tal modo lo sviluppo della pietà e del livello di devozione.
Nel Settecento il culto a Vicinio appare rinvigorito; gli ecclesiastici, spinti anche da un’affezione popolare sempre più massiccia, marcano gli attributi del santo, agiscono sul fronte delle reliquie e giganteggiano il valore della catena. Per una diocesi piccola e dai bilanci modesti, la popolarità del culto e l’affluenza di massa dei fedeli-pellegrini devoti dovevano pur significare qualcosa a livello d’introiti: una risorsa, forse, indispensabile per ossigenare il sostentamento della cattedrale, del Capitolo e del clero che vi era impiegato. Così su Sarsina e sul suo vescovo Vicinio confluisce tutto cio che concerne maleficio, ossessione e possessione diabolica, esorcismo: con escursioni fluttuanti dalla sfera religiosa a quella psichica, psichiatrica e psicanalitica. Un terreno com- plesso, oscuro e minato, sul quale è facile smarrirsi e perdere la bussola. La cosiddetta “catena” di san Vicinio – un collare ferreo – assume un ruolo centrale nella storia del culto e negli sviluppi della tradizione: su di essa si concentrò la maggior attenzione della libellistica sarsinate di matrice ecclesiastica, con l’ovvia e inevitabile conseguenza a carico della devozione popolare, che la recepirà come una reliquia vera e propria del santo e come oggetto depositario di ogni virtus; nel tempo essa acquisisce un potere taumaturgico autonomo, divenendo nell’immaginario collettivo un vero e proprio surrogato del santo. Antonini non dubita – e con lui tutti i seguaci – che il collare «che ancora havemo» sia realmente appartenuto al santo e fosse da lui usato come strumento penitenziale «per macerar la carne» e come antidoto «per tormentare i demonii».

La catena di ferro di S. Vicinio, che ancora havemo, et che si adopra, et si è adoprata sempre da porre al collo degli spiritati, si crede, che fosse portata dal santo per macerar la carne, et che l’usasse anco per tormentare con essa i demonii, già che si legge, che fù fabricata per discacciare i demonii: et a gl’essorcismi, et alle orationi doveva aggiongervi questo flagello ancora, che si vede esser tale, che anco il luogo, dove fù gettata quella s. catena nel gorgo da quel guidone sotto il ponte di sasso, che era sul Savio vicino alla città poco sopra il molino, che vi hanno li canonici, si hà mantenuto quella prerogativa, che passandovi spiritati per il ponte, sinché fù in piedi (che rovinò il dì 14 di settembre del 1557 a tempo della inondatione, che i nostri chiama- no anco diluvio) guarivano assai di loro senza che avessero a ve- nire a Sarsina, se non per render gratie al santo della ricevuta gra- tia. Vivono ancora persone, che si ricordano di ciò, et che tutti gli spiritati all’entrare sul ponte, dove era fabricata una celletta, facevano grandissima resistenza risolvendosi per lo più gli spiriti partirsi più tosto di que’ corpi, che passare per detto ponte; tanto era il timore, che havevano di dovere esser tormentati da quella benedetta catena.

Essa, posta al collo degli indemoniati (o supposti tali), con una modalità d’uso già attestata nella Vita, è impiegata come strumento esorcistico: gli effetti taumaturgici sono ben noti. Bisogna fare molta attenzione in proposito: non si comprendono appieno il significato e il valore di questa catena-collare fuori dall’unico orizzonte fornito dalla Vita s. Vicinii. Chi l’ha redatta manifesta la conoscenza dei classici dell’agiografia: ma a monte di tutti gli exempla sta la Bibbia, e in particolare il Nuovo Testamento, perché Cristo è il modello che i santi imitano. Solo così, infatti, si comprende il ruolo centrale dei miracula: la risposta concreta a un preciso atto di fede, sulla scorta di quanto affermato dai testi sacri («chiedete e vi sarà dato», perché «nulla è impossibile a Dio»).
Il vir Dei Vicinio, estraneo alla comunità che lo venera e proveniente da un luogo lontano, serve Dio e quindi il popolo, si mette al servizio dei più deboli, protegge gli umili di fronte ai potenti, si fa mediatore; a lui si chiede la liberazione dal male che affligge (la malattia) o dal demonio; il suo potere taumaturgico si esplica nel miracolo, che diviene signum del divino e monito per l’uomo, con lo scopo preciso di edificare e, conseguentemente, determinare il fine apologetico della fede cristiana.
La sua virtus si irradia dalle reliquie (dalle quali scaturisce una vera e propria forza curativa) e dagli oggetti sui quali si trasferisce post mortem, conservando le prerogative del corpo santo e alimentando la devozione; il suo culto assume così uno scopo pastorale e le feste anniversarie della sua scomparsa prolungano e rinvigoriscono il ricordo, dando corpo anche alle esigenze della religiosità popolare.
La cattedrale di Sarsina assurge a santuario taumaturgico, dove cercare aiuto e protezione nelle avversità; di qui la grande pratica del pellegrinaggio, fortemente attestato e pubblicizzato nella Vita, anche in un ruolo di concorrenza con analoghi loca sancta (il riferimento è particolarmente a san Donato di Arezzo, subalterno a Vicinio; nell’episodio dell’ossesso Bonizone, colono aretino, è addirittura il demonio in persona a confessare: «Perché portate costui in giro miseramente e con inutile fatica per tanti luoghi di martiri? A nessuno dei martiri, a nessuno dei confessori mi sento obbligato a cedere se non al beato Vicinio vescovo di Sarsina, colui che si è opposto sempre a me e ai miei soci anche quando era vivo»).

Il santuario sarsinate si caratterizza per una patologia specifica: chi vi si reca – in armonia con tutta la miracolistica medievale – non chiede la salvezza dell’anima ma sempre una liberazione: dal male fisico, esito di trasgressione o d’incidente, dal nemico e soprattutto dal demo- nio; la guarigione fra le righe è assimilata all’esorcismo, peraltro mai conseguente a specifici e segnalati rituali.
Dunque la tradizione ci ha consegnato questo collare ferreo (cm 21 x 14, Ø cm 13, larghezza della lamina cm 1,5, spessore mm 5, peso gr. 700), custodito all’altare delle reliquie del santo e usato a conclusione del rito di benedizione dei fedeli, al cui collo viene messo per un breve lasso di tempo (difficile non pensare che anche dietro questo gesto benedizionale e devozionale sia da leggersi l’influsso della Vita); il suo uso, sempre secondo la tradizione, sarebbe giustificato dal fatto che il santo con essa faceva penitenza nel tempo di vita eremitica trascorso sul Monte di Musella. Il carattere leggendario di simile tradizione è oggi ben evidente.
Occorre pertanto ribadire, alla luce della Vita (unica fonte in nostro possesso, e da leggersi con tutte le cautele richieste da un testo agio- grafico medievale), che non esiste alcun elemento riferibile ad una esperienza di vita eremitica e non vi è cenno alla catena come strumento di costrizione corporale usato dal santo. Ma questo è l’oggetto che da sempre si associa a Vicinio e che più stimola la fantasia di certa devozione popolare; la sua imposizione viene di fatto vista e sentita come una sorta di relazione terapeutica, di imposizione delle mani stesse del beato, quasi a determinare liberazione, guarigione e risveglio della fede.
Sono tre, nella Vita, i racconti miracolosi che la menzionano: il primo, il terzo e il sesto. In riferimento a forma, uso, funzione e collocazione essi ne parlano in termini disarmonici, contradditori o inconciliabili.
Il primo episodio mostra chiaramente che la catena non si trova in chiesa ma nel carcere dell’episcopio, e serve per legare e tenere in custodia un carcerato; dunque vi manca l’uso devozionale e il culto del santo appare legato alla sola tomba. Nel secondo la catena non presenta connessioni di tipo devozionale e nulla ha a che vedere con la tomba viciniana.
Nel terzo la catena è custodita nella chiesa, accanto al sepolcro del santo, è oggetto di venerazione e fa ormai parte di una consuetudine.

Se ne può concludere che la virtù taumaturgica dalle reliquie e dalla tomba si trasferisce lentamente anche alla catena, a sua volta venerata e ritenuta miracolosa; sembra prenderne atto la stessa Vita, nei cui racconti d’indemoniati mai si fa cenno a esorcismi; né va dimenticato che mentre la catena ricorre in tre dei nove episodi miracolosi, tutto il testo della Vita è focalizzato sul sepolcro del santo e sulle reliquie. Inoltre le immagini di Vicinio con la catena ne fissano l’iconografia convenzionale di riconoscimento: la sua venerata icona è inseparabile dallo strumento ferreo; anzi, esso da solo svela l’identità, e dunque l’intercessione, del taumaturgo; e il tradizionale cordellino, benedetto e posto al collo del fedele devoto, funziona come una sorta di ripetitore. Nel 1995 la catena è stata sottoposta ad esami scientifici presso un laboratorio specializzato: sono state compiute analisi chimico-fisico-strutturali e metallotecniche, oltre che indagini di tipo archeometrico, anche mediante diffrattometria a raggi X; si è ricorso a spettrofotometria di assorbimento atomico e al plasma, oltre che a esami strutturali mediante tecniche ottiche; sono stati effettuati due microprelievi per avere campioni materici; l’oggetto è stato osservato con microscopia ottica stereoscopica, a differenti fattori d’ingrandimento. La conclusione del laboratorio è la seguente: «Non esistono allo stato attuale della conoscenza tecniche di datazione assoluta che siano in grado di fornire informazioni circa il periodo di costruzione della ‘catena’: si deve quindi ricorrere ad una se- rie di esami che diano indicazioni indirette in questo senso. Lo studio condotto sulla catena di San Vicinio indica che questa risulta essere costituita principalmente da ferro, con presenza di altri elementi metallici, in quantità dosabili, quali il rame ed altri, che testimoniano della grande impurezza del primitivo massello metallico ottenuto: queste presenze, assieme alle notevoli quantità di scorie su tutto l’oggetto, che seguono l’andamento della sua configurazione, con formazioni del metallo stratigraficamente sovrapposto, fanno pensare che il metallo sia stato lavorato con una tecnica molto primitiva che si affidava principalmente a cicli di riscalda- mento fino al rosso cui seguiva una martellatura prolungata. Questo fa pensare a lavorazioni effettuate sicuramente prima del IX secolo: a partire da tale periodo non risulta- no più testimonianze di tale tecnica di lavorazione; non esistono peraltro elementi che possano impedire di attribuire la lavorazione dell’oggetto attorno al IV secolo, essendo tale tecnologia costruttiva già in uso nel primo millennio avanti Cristo». Pertanto le indagi- ni scientifiche ci hanno detto che la sua fabbricazione è sicuramente anteriore al IX secolo, con un lasso di compatibilità che giunge persino in età precristiana, rendendo ragionevole pensare che effettivamente si tratti di un reperto romano: ma più di tanto non siamo autorizzati ad affermare, essendo impossibile documentare una connessione diretta col santo. Il suo utilizzo benedizionale e, in rari casi, esorcistico appartiene ad una secolare e consolidata tradizione, con effetti peraltro oggettivamente incontrovertibili, come ampiamente testimoniato. Al tempo della redazione della Vita s. Vicinii un collare esiste ed è impiegato con funzione coercitiva nei casi di ipotizzata possessione diabolica; e il collegamento al santo era già divenuto naturale deduzione, trasferimento di virtus e consuetudine operativa. È pertanto opportuno conservare la purezza della tradizione, evitando però di sovradimensionare e sovraesporre un oggetto passibile di letture e decodificazioni esagerate o addirittura magiche. Tanto più che la Vita stessa, nei tre miracoli che vedono protagonista la catena, ce la mostra sempre come strumento coercitivo e soltanto in un episodio essa appare collegata al culto del santo e fa parte di un’usanza devozionale; mai è strumento d’esorcismo; è vero invece che tutto il testo è focalizzato sul sepolcro e sulle reliquie.

IL MESSALE DELL’ABBAZIA DI SANT’AMBROGIO DI RANCHIO
Merita un cenno il messale dello scomparso monastero di Sant’Ambrogio di Ranchio, un libro liturgico medievale del sec. XI prodotto da uno scriptorium ravennate (Sant’Apollinare in Classe o Pomposa) per la comunità ranchiese e oggi custodito nella Walters Art Gallery di Baltimora (Ms. W. 11). Nel fol. 250v è contenuta una Messa votiva Pro iter agentibus: tale preghiera (anche pro fratribus in via dirigendis), tipicamente monastica, è frequente nella Chiesa a partire dal sec. VIII (ricorrente in alcuni messali degli inizi del sec. XI), e certamente fu ispirata dalla Regula di s. Benedetto (480 ca.- 560 ca.), che nei capp. L, LI e LXVII parla «De fratribus qui longe ab oratorio laborant aut in via sunt», «De fratribus qui non longe satis proficiscuntur», «De fratribus in viam directis». Anche il volume liturgico di Ranchio è testimone del ruolo che il pellegrino assumeva nelle comunità monastiche benedettine. Il manoscritto – di 300 carte circa – giunge al museo di Baltimora nei primi decenni del ‘900, transitando per Parigi, dove fu acquistato nella bottega antiquaria di Leon Gruel, commerciante di libri e manoscritti antichi, dal fondatore del museo Henry Walters.