La Basilica

La storia e la geografia del Medioevo tanto italiano quanto europeo sono caratterizzate da un impressionante reticolo di cattedrali e di santi patroni: un vero e proprio cantiere continentale destinato a segnare la vita e la cultura, l’architettura e l’arte, la letteratura e le tradizioni delle città così come delle popolazioni.
Anche Sarsina rientra nell’ordito di questa fenomenologia: il pellegrino o il turista che l’attraversa vi trova la cattedrale, in puro stile romanico, e il sepolcro di san Vicinio, primo vescovo della città, evangelizzatore della vallata, patrono della diocesi ieri di Sarsina oggi di Cesena-Sarsina. La sede episcopale, posta nella media valle del Savio, al centro di uno strategico percorso che mette in comunicazione Roma con Ravenna, è caratterizzata dalla natura collinare e montagnosa ma anche determinata dalla sua povertà e marginalità; non è un caso che la giogaia del Monte Fumaiolo venga scelta per fondazioni romualdine e pierdamianee, peraltro contigue al cuore camaldolese e al nullius di Bagno di Romagna.
Tuttavia risulta che in età tardoantica e altomedievale la conduzione della diocesi abbia potuto godere di sufficienti mezzi e serenità. Di certo il panorama degli insediamenti religiosi dei secoli X-XI registra una sorprendente presenza monastica benedettina: le abbazie di Santa Maria in Trivio di Montecoronaro, San Michele di Verghereto, Santa Maria di Bagno, Sant’Ambrogio di Ranchio e San Salvatore in Summano di Montalto. Non manca neppure l’esperienza eremitica: Ocri e San Giovanni inter ambas paras sono due eremi che le fonti intrecciano, intersecandoli persino con Sant’Alberico. Storicamente la venerazione di un santo poggia sull’ammirazione per la sua vita, quasi sempre magnificata mediante episodi e vicende narrati dalla letteratura agiografica; ma anche sulla convinzione che per i suoi meriti Dio gli abbia concesso un palese potere d’intercessione (virtus), che si perpetua nelle sue ossa o in altre parti del suo corpo (reliquiae) M anche in oggetti venuti a contatto con quel corpo (reliquie cosiddette rappresentative o secondarie). Pertanto la reliquia, costituita dal frammento di una persona reale capace di rendere presente il passato, è la memoria di un santo, del quale prolunga la presenza; per questo è venerata, oggetto di un culto che può esprimersi in forme liturgiche e non, ufficiali, tradizionali e popolari, fino a sfociare in veri e propri furti sacri, quasi dettati da una specie d’insaziabile bisogno di santità. Così la parcellizzazione dei corpi santi determinò la moltiplicazione delle reliquie, mantenendone tuttavia le prerogative liturgiche e devozionali; tali percorsi iniziavano con l’inventio, la scoperta delle spoglie mortali di un santo, e terminavano con la translatio, il trasferimento di un corpo santo in un locus che se già non lo era diveniva sanctus.
Noi ignoriamo se e quando sia avvenuta l’inventio delle spoglie di Vicinio, perché potrebbero essere state da sempre collocate e venerate nella cattedrale sarsinate; di certo nel Medioevo erano poste nella cripta e custodite in un sarcofago: lo fanno capire la forma dell’odierno presbiterio, con le tracce evidenti della cripta e la testimonianza della Vita s. Vicinii, là dove accenna al fatto che Vicinio fu «sepolto in un sarcofago di marmo» collocato nella cripta. Difficile risalire alla sepoltura originaria; da registrare, inoltre, la tradizione popolare che vorrebbe identificare il primo sarcofago con l’arca di arenaria oggi collocata sul fianco esterno sinistro della basilica sarsinate, sormontata da una croce di tipo viario e databile all’età tardoantica o paleocristiana.
Di fatto le vicissitudini della chiesa-madre sarsinate appaiono strettamente connesse al ruolo santuariale configurato dalla presenza delle reliquie viciniane: persino le vicende edilizie e la struttura dell’arredo liturgico e artistico risultano determinate dall’ubicazione del sepolcro del santo e dalle esigenze devozionali. Nel corso del tempo le spoglie del santo vescovo, per una maggiore visibilità e una facilitata fruibilità, saranno trasferite dalla cripta e collocate sotto l’altare, dapprima centrale poi laterale, in quanto il vir Dei è in piena comunione con il Cristo presente sopra l’altare. Inizia così la stagione delle ricognizioni e traslazioni, variamente documentate.

I grandi restauri degli anni 1958-1966, programmati e compiuti dal vescovo Carlo Bandini (1894-1989), recano all’altare di Vicinio l’attuale fisionomia: con l’ultima ricognizione del 1960, le spoglie del santo vengono incluse nel simulacro antropomorfo in abiti pontificali con pastorale e collocate a piena vista in una teca di cristallo al di sotto della mensa. La cattedrale dell’antica urbe festeggia nell’anno giubilare (25 marzo 2008 – 31 maggio 2009) i suoi mille anni d’esistenza: la circostanza – in assenza del dato certo e documentato – è naturalmente convenzionale ma assolutamente ragionevole, non soltanto per motivi stilistico-architettonici. L’odierno sito della cattedrale si trova ai margini di quello che doveva essere il quartiere episcopale tardoantico e alto medioevale, a nord-est del foro (lo scavo in atto fra via IV novembre e vicolo Aurigemma mostra strutture legate alla primitiva cattedrale); di certo la tomba del santo vescovo, per esigenze liturgiche, cultuali e devozionali, sancì e motivò i successivi sviluppi architettonici. La chiesa-madre costituiva il centro fisico e spirituale della comunità religiosa e civica, custodendo nella cripta le reliquie del patrono e taumaturgo. Proprio il sacro tumulo accolto nella cripta diviene punto d’irradiamento della fede cristiana e méta desiderata dei pellegrinaggi. A Sarsina, questo è particolarmente evidente: su pietre, pareti e pavimento si carpiscono la disposizione e le finalità della cripta, con le botole a vista antistanti la zona presbiteriale che mostrano le basi delle colonne del criptoportico che ostendeva, facilitandone l’accesso a fedeli e devoti, l’arca del santo.
Qui giungeva l’uomo a qualunque titolo questuante, terminava il viaggio peregrinante, veniva portata ogni sorta di dolore e malattia; qui confluivano lacrime e preghiere, trovavano risposta e significato invocazioni silenti o gridate, si materializzavano accoglienza e consolazione; qui è attestata l’ardua ed epica lotta fra bene e male, con splendide pagine di misteriosi doni di pace, serenità e salute. Così il luogo sacro diviene santuario, ove si recano i fedeli in frequenti e frequentati pellegrinaggi.

E lo spazio, ulteriormente sacralizzato dalle reliquie, assume valenza pedagogica. Qui risiede la responsabilità dei ministri del culto, che accolgono e guidano i pellegrini. L’edificio basilicale, canonicamente intitolato a Santa Maria Annunziata, in età medievale fu anche pieve urbana: i documenti lo menzionano sia quale cattedrale che come tempio plebano retto da un archipresbiter, così come è certificata la doppia intestazione a Maria e a Vicinio. Le sue vicende architettonico-edilizie e le vicissitudini dell’arredo artistico e del corredo liturgico sono molteplici: la penultima facies dell’interno, attestata da immagini d’inizio Novecento, è quella di uno stile barocco al culmine di molteplici addizioni provenienti da gusti personali e d’epoca ma in armonico equilibrio. Quel volto barocco è oggi perduto, in virtù di lavori voluti e desiderati dagli allora vertici diocesani, concessi e guidati dalla Soprintendenza di Ravenna e dall’impulso di un esperto qual era mons. Mario Mazzotti. A metà Novecento il vescovo Carlo Bandini, ultimo presule residente, restituì alla cattedrale (fregiata nel 1961 del titolo di basilica su concessione di papa Giovanni XXIII) il volto romanico, da lungo deturpato e nascosto. Dal 30 settembre 1986 la Diocesi di Sarsina è unita a quella di Cesena.

Il patrimonio artistico che il visitatore può ammirare è la valorizzazione di arredi e oggettti qui preservati ma di varia provenienza e difforme destinazione, oltre che di non omogenea qualità e talora oscura paternità. Si va dal lapidarium che indistintamente riepiloga età (romana, bizantina e medievale) e natura (epigrafica, architettonica e celebrativa) diverse, a pregevoli manufatti altomedievali quali il fonte battesimale e l’ambone con i simboli degli evangelisti, al pannello scultoreo bassomedievale che ora funge da paliotto all’altare maggiore ma che apparteneva all’abbazia benedettina di San Salvatore in Summano (l’odierno Montalto). Diversificato pure l’insieme pittorico, in gran parte ostenso nel presbiterio e distribuito fra altari e cappelle laterali: la tela di maggior pregio, capolavoro di Ippolito Scarsella detto lo Scarsellino (1550 ca.-1620), principale pittore estense fra Cinque e Seicento, è la pala dell’altare di san Vicinio, una “scoperta” dovuta ai restauri per il millenario della cattedrale; infatti la tela “celava”, sotto antiche e spesse ridipinture, il ritratto del vescovo Nicola Brauzzi ed era oggetto di attribuzioni inconsistenti; nella medesima cappella campeggiano quattro tele di Michele Valbonesi da Ranchio (1731-1808) dedicate ad altrettanti miracoli compiuti dal taumaturgo e narrati dalla Vita. Degne di segnalazione, fra le tele del presbiterio, l’Annunciazione di Mattia de Mare (sec. XVIII) e la Messa di san Gregorio Magno, attribuita a Carlo Cignani (1628-1719).