Il Santuario e i luoghi del Santo
Come abbiamo visto, l’unica fonte antica di cui disponiamo offre scarse informazioni topografiche; è semmai la tradizione a fornirci abbondanza di dati e particolari, talvolta frutto d’indubitabile invenzione. Ma se è acclarato che la tradizione può indurre al sospetto, sappiamo bene che molte volte essa risulta supportata dal tempo lungo delle attestazioni.
Il Monte di San Vicinio: tra la Musella e Montesorbo
Uno dei più frequentati luoghi comuni riferiti all’esistenza di san Vicinio è il “monte” sul quale praticava la severa disciplina della penitenza; ora, se la Vita tace completamente su un tal luogo riferendosi unicamente ad un “monte” in senso metaforico e spirituale (cfr. Vita, 3, 3: «Pervenuto infine alla vetta della perfezione spirituale, cominciò ad aspirare con insuperabile nostalgia alla sommità della grandezza celeste»), dall’espressione, chiaramente metaforica a significare «divenuto vescovo», a giudizio di studiosi «è nata la tradizione del cosiddetto Monte di San Vicinio, il monte su cui il santo vescovo si ritirava a condur vita eremitica! Questa tradizione è ricordata già dal Ferrari nel 1613, ma credo non sia altro che un’erronea interpretazione del testo». I documenti giungono in soccorso alla tradizione. Infatti gli atti del sinodo diocesano del 1380 testimoniano che sul monte detto di San Vicinio, fra Musella e Montesorbo, si trova già una «ecclesia de monte sancti Vicinii»; inoltre il monte e l’oratorio di San Vicinio sono registrati in alcuni atti notarili e nei verbali della prima visita pastorale condotta dal visitatore apostolico Girolamo Ragazzoni (1536-1592) il 3 ottobre 1573. È a Filippo Antonini che spetta la “responsabilità” archetipica di narrazioni che poco devono alla sto- ria e molto a tradizioni e leggende; chiari, in proposito, i suoi «avvertimenti»:
È stata voce sinhora per traditione e’ vecchi dall’un secolo all’altro, che s. Vicinio stesse buona parte della sua vita ritirato nel monte della Musella et che anco ivi morisse, et che di là fosse condotto per sepelire il suo santo corpo alla cathedrale di Sarsina con l’opera di due giovenchi, quali finita quella fatica sciolti se ne andarono al fiume Sauio, et passatolo se ne morissero in que’ campi contigui, che da loro sin’hora si sono detti Campo de’ giovenchi. Resta ancora in piedi una celletta nel monte della Musella, dove si dice che egli stava: vi è vicino un altro oratorio, dove si celebra, et si conferisce per esser beneficio semplice.
Il monte, et una selva di castagni, che vi sono, si chiamano di s. Vicinio. Et a quello oratorio del monte vi è concorso di popolo nell’ultima domenica di maggio per antico uso, celebrandovisi, come alcuni dicono, la festa della traslatione di s. Vicinio dalla Musella a Sarsina; ma hà più del verisimile, che sia la festa della consecratione di esso, quando fù fatto vescovo; perché de maggio egli fù eletto, sendo vissuto poi 27 anni, et trè mesi, che fanno cader la sua morte nel mese d’agosto. Indubbiamente la tradizione del monte ha attraversato indenne i secoli: ancora oggi vi si trovano un oratorio (pressoché dismesso) e, vicino, una celletta (di recente restaurata) che mostra al centro una grata ferrea intesa a segnalare il punto ‘preciso’ del romitorio.
Per di più il legame fra chiesetta sul Monte di San Vicinio e cattedrale di Sarsina era anche iconografico; infatti il pittore Michele Valbonesi, già attivo nella cappella del santo, nel 1761 aveva prodotto in copia per l’altare dell’oratorio sul monte la pala sarsinate dello Scarsellino: la tela fu retribuita con 20 scudi.Di quel documento pittorico, trafugato anni fa, rimane una sbiadita immagine in un volume di Luigi Testi. Gli scritti dell’Antonini fecero scuola ed ebbero gran seguito nell’àmbito sarsinate, specie fra gli eruditi ecclesiastici e i canonici: don Luigi Testi (1857-1941), don Ettore Fabbri (1891-1974) e don Vicinio Caminati (1912-1974) concordano e riempiono le loro numerose e plurieditate pubblicazioni di storia (poca) e di leggenda (molta), concentrando nei lettori l’attenzione sulla “prodigiosa” catena.
Anzi, il Testi arriva a descrivere in dettaglio le modalità della penitenza del santo (negli ocelli della catena passava una corda cui era legata la pietra onde tenere curvo il corpo!) e afferma perentorio che quel- la catena è ora conservata con diligenza; Testi lega a Vicinio la fonte ai piedi del Monte di Musella (da manuale, nella fenomenologia del sacro, l’abbinamento monte-fonte); pubblicizza i cordoncini o cordellini – formati da un intreccio di fili di seta policroma – che, benedetti col tocco del collare del santo, vengono portati al collo dai fedeli (è il chiaro effetto di prolungamento della virtus della catena); lamenta la distruzione di avanzi di pietra sui quali si ravvisavano le poste delle ginocchia del santo; si rammarica per la scomparsa della grotta penitenziale; narra di pastori testimoni sul monte di un’apparizione di angeli recanti le infule episcopali per Vicinio (quasi riprendendo la scena dipinta dallo Scarsellino); veicola la leggenda della quercia che piega i rami al passaggio del corpo del beato!
La Pieve di Santa Maria Annunziata di Montesorbo
Ma quella del Monte di San Vicinio è una questione aperta e complessa. Abbiamo già visto come la documentazione lo menzioni fin dal 1380: perciò a quell’epoca il nesso monte-santo è in pieno vigore, e vi si trova una ecclesia celebrata e frequentata; per l’età anteriore non si hanno notizie. Ma il problema si fa più intrigante se consideriamo che ai piedi del monte si trova, a nord-ovest, la frazione di Montesorbo, località ben nota per la presenza dell’antica pieve di Santa Maria Annunziata. Si tratta di un edificio chiesastico a tre navate tanto affascinante quanto misterioso, con una piccola ma intensamente caratterizzata abside romanica: l’unico esempio di romanico in diocesi, oltre alla cattedrale sarsinate, e anche questa comunanza induce al sospetto. L’edificio è abbellito da colonne romane di marmo cipollino, da capitelli corinzi d’età classica e da un vasto materiale scultoreo paleocristiano e medievale fra cui spiccano le lastre di un ciborio databile ai secoli VIII- IX; tanti e tali reperti, chiaramente di reimpiego.
Hanno anche indotto a pensare a una loro provenienza da un tempio romano, ad esempio dedicato a Cerere, ma potrebbero risalire all’arredo della Sarsina romana o persino riferirsi ad una villa d’un funzionario esarcale. Le origini della ricca chiesa di Montesorbo sono purtroppo avvolte dal buio del tempo e dal silenzio dei documenti. Un ulteriore interessante indizio è costituito dall’epigrafe tombale del vescovo Fiorenzo, vissuto e morto nel secolo X, anch’essa ricoverata a Montesorbo. Come spiegare, in quel tempio o nei dintorni, la sepoltura di un vescovo sarsinate prima del Mille? Solo con una motivazione speciale, di cui però ci sfuggono i connotati: potrebbe avere una qualche implicazione con san Vicinio e il suo culto? E se così fosse, questa sorta di damnatio viciniana abbattutasi su Montesorbo potrebbe essere l’esito di un’azione decisa centralmente dal vescovo e/o dal Capitolo della cattedrale per ricondurre solo a Sarsina la memoria del protovescovo? Il rilancio del culto e la committenza della Vita, concomitanti, possono costituirne una conferma? La congettura fornirebbe una luce straordinaria al fitto mistero in cui si trovano le origini remote della pieve di Montesorbo, visto che il coinvolgimento di san Vicinio potrebbe – almeno in parte – spiegare perché in quell’edificio plebano è confluito tanto materiale romano, paleocristiano e medievale, un corredo giacente nella località almeno a partire dall’alto Medioevo, se non già sul limitare del tardoantico.